Umiltà e storytelling: l’enigma del pio comunicatore

Perplexed, foto di Louis du Mont da Flickr

La comunicazione sulla fede vissuta soffre di un paradosso che non so risolvere.

Da una parte c’è il fatto che il nostro tempo non vuole maestri, ma testimoni. Le persone non vogliono ascoltare ragionamenti, lezioni, spieghe: vogliono sapere che cosa ti è successo, che cosa hai vissuto. Vogliono storie (meglio se vere).

D’altra parte, se racconti il tuo vissuto e la tua ricerca su cose di fede, incorri inevitabilmente in un disgustoso effetto auto incensante. A differenza della neutra ricerca di un parcheggio o di una caffettiera, che posso raccontare serenamente, la ricerca di Dio è cosa talmente buona che è impossibile parlarne in pubblico senza dare l’impressione a se stessi e agli altri di un compiacimento.

«Ammazza quanto so’ pio, quanto so’ umile e mortificato! Ma avete mai visto al mondo tanta devozione? Avete letto quali sentimenti profondi sa spremere il mio eletto cuoricino?! Scommetto che voi non gliele avete mai dette a Dio queste cose fantastiche che gli so dire io! Ah, che fortuna avete voi che mi conoscete! State facendo tesoro della frequentazione di cotanta spiritualitudine?»

Infatti i santi – quelli veri –  raccontano le cose della loro vita interiore solo quando moralmente costretti da un ordine tassativo del proprio direttore spirituale, e sempre con immensa riluttanza.

Mi sembra insomma che della cosa in un certo senso più importante di tutte sia pressoché impossibile parlare in prima persona, in un contesto pubblico. Ma d’altra parte portare il discorso su un piano impersonale, per la sensibilità odierna, sortisce l’effetto di essere del tutto ignorati.

Come si esce da questa contraddizione?

Arte di persuadere

Molto, molto vorrei dire sulle discussioni e dispute verbali che riempiono i moderni areopaghi oggigiorno. Spesso al calor bianco.

Prima o poi vorrei riflettere con voi sul fatto che ciascuno dei contendenti si aspetta dall’altro qualcosa di assolutamente impossibile, e cioè che capitoli pubblicamente, affermando “mi hai convinto, tu hai ragione ed io ho torto”.

Ma c’è qualcosa di più importante da dire sulla faccenda, ed è questa.

Gustave Thibon

pope-francis-jews-kisses-hands-holocaustARTE DI PERSUADERE — Scendi in lizza carico di potenti argomenti. Ma non vedi che il tuo avversario attende da te prima un bacio. Prima di provargli che hai ragione, provagli che lo ami. Dopo il bacio, i tuoi argomenti più poveri saranno irrefutabili.

(Gustave Thibon, La scala di Giacobbe, AVE, Roma 1947, p. 93)

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Non più altro

L’Incarnazione ricuce l’unica reale cesura esistente: quella fra Creatore e creazione.

L’uomo nella sua unicità di natura corporea e spirituale insieme, non è davvero radicalmente altro rispetto ad ogni altra parte del creato: siamo impastati di stelle morenti e di stelle marine tanto quanto imparentati con le creature angeliche. L’unico nostro radicalmente Altro è Dio, nonostante siamo modellati a Sua immagine e somiglianza.

Ebbene,  l’Incarnazione, che tende e culmina col Mistero Pasquale, contraddice “inconcepibilmente” proprio quella cesura. In questo senso credo stia quella frase di Cristo, “Si exaltatus fuero a terra, omnia traham at Meipsum”: “omnia” è proprio l’uomo concatenato al resto del creato, che insieme all’uomo viene risucchiato per così dire nel seno di Dio, misteriosamente ma realissimamente.

In Cristo – in un certo senso – ogni cristallo giacente nelle viscere di un esopianeta, ogni lichene,  moscerino,  iguana, ogni spugnetta per lavare i piatti, ogni muro di mattoni ed ogni invenzione umana, in Lui con Lui e per Lui siedono alla destra di Dio Padre onnipotente, in eterno.

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Lassù vuol dire dentro

Vi proponiamo un articolo di don Paolo Sottopietra, dal sito della Fraternità San Carlo. Lo condivido parola per parola. Mi sembra un’ottima risposta alla domanda del sottotitolo di questo blog.

«Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio», scrive san Paolo ai Colossesi. «Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra».

Queste frasi potrebbero essere prese, superficialmente, come un invito a sminuire il valore delle cose con cui abbiamo a che fare tutti i giorni.
Dobbiamo guardare alle cose di lassù e distogliere l’attenzione da tutto il resto? Dobbiamo cioè ritirarci dall’impegno con le cose del mondo, dal godimento delle possibilità della vita, dall’economia e dalla politica, dall’arte e dalla cultura? C’è chi interpreta l’esortazione di san Paolo in questo senso, indicando la via di uno spiritualismo che rifiuta di incontrare la materialità della nostra esistenza. L’unica cosa che conta veramente è la vita eterna, quindi allontaniamoci dal resto, perché ci distrae da ciò che è autentico.

Non è questo ciò che insegnano san Paolo e la Chiesa. Al contrario, solo e proprio perché l’unica cosa che conta veramente è la vita eterna, tutto conta di questa nostra vita presente.

Don Giussani, per far capire questo, ha tradotto la parola «lassù» con la parola «dentro». La vita eterna è la verità di questa vita, diceva. Che Cristo è assiso alla destra del Padre significa che «si è collocato alla radice delle cose». Il cristianesimo, aggiungeva, «è l’inizio dell’eternità nell’esperienza dell’uomo solito in questo mondo; è l’esperienza di un uomo che coltiva l’eterno, percepisce l’alba dell’eterno in sé, capisce come nella sua esistenza la verità eterna o la felicità compiuta ed eterna sono tangibili, sono contenuto reale dell’esperienza presente».

Tutto prende valore proprio perché tutto sarà conservato. Senza la prospettiva dell’eternità, le cose si svuotano, perdono senso. Non basta dire, come il poeta Terenzio: «Sono uomo», per affermare che nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Se l’uomo finisse nel nulla, in realtà, tutto gli sarebbe estraneo.

Nella luce dell’eterno, invece, tutto prende vita e senso, dai rapporti pubblici fino alle esperienze più intime. Se la vita è eterna, vale la pena di vivere fin d’ora l’amicizia, l’amore per la propria moglie e per i propri figli; è bello l’orgoglio di appartenere alla propria terra e al proprio popolo, che dà forza all’identità di un uomo e apre al mondo e agli altri; è pieno di nobiltà il lavoro per migliorare le proprie condizioni e la terra di tutti; è giusta la fatica della politica per conservare la pace e per contribuire al cammino di ogni uomo verso la sua piena dignità; è vero l’amore alla Chiesa, con le sue ferite e la sua gloria; ha senso il sacrificio necessario per educare le nuove generazioni a ciò che è bello e puro; è un bene coltivare il gusto per la musica, per la letteratura e per ogni arte.

Se la vita è eterna, contano le richieste che rivolgiamo a Dio, le promesse, il perdono domandato e ottenuto, la gratitudine espressa nella preghiera, lo stupore provato per la vicinanza del Signore. Se la vita è eterna, può essere un’esperienza reale la consuetudine con i santi, piena di confidenza, l’accordo vissuto con loro nella comunanza di sensibilità, l’aiuto da loro implorato e ricevuto.

Tutto questo non verrà cancellato dalla morte: sarà nostra eredità per sempre.

Dall’apostolo Tommaso a Facebook: il Cristianesimo è giovanissimo

Ho trovato queste immagini per caso su Facebook. Vengono dal profilo di un giovane ingegnere cattolico che vive nel Kerala, nell’India sud-occidentale.

Queste sono le terre evangelizzate da san Tommaso apostolo, a partire dal 52 d.C.  Qui  sorse la prima diocesi dell’India, nel 1329. In Kerala il 19% della popolazione è cristiana, suddivisa fra diversi riti: cattolici di tradizione siriaca o latina (circa otto milioni), ortodossi e riformati.

Ed ecco i frutti della predicazione di Tommaso, quasi duemila anni dopo: giornata di Prime Comunioni in India!

Il colpo d’occhio dell’ultima foto è per me impressionante. Quanti sono questi ragazzi? Che dono meraviglioso saranno per il loro Paese, e per tutto il mondo!

E chissà, forse qualcuno di loro domani riporterà un po’ di speranza, la speranza stessa di Cristo, a questa Europa sempre più vecchia, sterile e triste.

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