- Perplexed, foto di Louis du Mont da Flickr
La comunicazione sulla fede vissuta soffre di un paradosso che non so risolvere.
Da una parte c’è il fatto che il nostro tempo non vuole maestri, ma testimoni. Le persone non vogliono ascoltare ragionamenti, lezioni, spieghe: vogliono sapere che cosa ti è successo, che cosa hai vissuto. Vogliono storie (meglio se vere).
D’altra parte, se racconti il tuo vissuto e la tua ricerca su cose di fede, incorri inevitabilmente in un disgustoso effetto auto incensante. A differenza della neutra ricerca di un parcheggio o di una caffettiera, che posso raccontare serenamente, la ricerca di Dio è cosa talmente buona che è impossibile parlarne in pubblico senza dare l’impressione a se stessi e agli altri di un compiacimento.
«Ammazza quanto so’ pio, quanto so’ umile e mortificato! Ma avete mai visto al mondo tanta devozione? Avete letto quali sentimenti profondi sa spremere il mio eletto cuoricino?! Scommetto che voi non gliele avete mai dette a Dio queste cose fantastiche che gli so dire io! Ah, che fortuna avete voi che mi conoscete! State facendo tesoro della frequentazione di cotanta spiritualitudine?»
Infatti i santi – quelli veri – raccontano le cose della loro vita interiore solo quando moralmente costretti da un ordine tassativo del proprio direttore spirituale, e sempre con immensa riluttanza.
Mi sembra insomma che della cosa in un certo senso più importante di tutte sia pressoché impossibile parlare in prima persona, in un contesto pubblico. Ma d’altra parte portare il discorso su un piano impersonale, per la sensibilità odierna, sortisce l’effetto di essere del tutto ignorati.
Come si esce da questa contraddizione?